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La Fabbrica

E così Amandola ha anche il vanto che una delle sue costruzioni più antiche e anche stilisticamente più valide è opera di un santo. Non è frequente, perché i santi non sono impresari. È verosimile anzi che il Beato stesso non solo abbia collaborato coi suoi consigli alla preparazione e all’esecuzione dei piani, ma che si sia persino rimboccato le maniche e che abbia di frequente lavorato sulle impalcature insieme ai muratori. Il lavoro manuale infatti era prescritto per i monaci e questi non se ne consideravano esentati se si dedicavano prevalentemente ad attività spirituali e intellettuali; Antonio poi veniva da un ambiente in cui il lavoro era stimato e amato e rispondeva anche a un bisogno della sua costituzione piena di vigore e di vitalità.

Con un abbondante sterro alle falde del monte Marubbione, su cui era addossato il vecchio romitorio e la chiesa, che era dedicata a S. Agostino, venne fatta una larga spianata e così si cominciò la costruzione, utilizzando anche alcune fondazioni della costruzione preesistente. Molto probabilmente fu la chiesa ad avere la precedenza sul convento o in essa si usarono materiali più pregiati e più nuovi; per il convento invece si utilizzò molto materiale di ricupero e crebbe con più modeste aspirazioni per riguardo alla povertà monastica. Ma proprio per queste ragioni fu il convento ad esser terminato prima.

Non ci sono pervenuti i nomi degli artisti che vi hanno operato durante la vita del Beato. Ma la precisione con cui la cronaca ci tramanda i nomi di quelli dopo la sua morte (Pietro Lombardo per il completamento del campanile nel 1464 e il veneto Marino di Marco Cedrino per il portale nel 1468) c’induce a pensare che il Beato, pur avvalendosi della tecnica degli esperti, abbia influito notevolmente anche nella direzione dei lavori. Non è con questo che gli si voglia dare anche il merito d’artista o d’architetto; non ci sono prove in questo senso. Ma egli deve essere stato largo di consigli e di raccomandazioni, forte anche di quanto aveva osservato fuori di Amandola. E non gli sarà stata inutile anche l’esperienza giovanile quando, ancora nell’ambito dei Benedettini, vedeva il progredire dei lavori nell’abbadia dei SS. Vincenzo e Anastasio e nel vicino convento dell’Ambro, che n’era una dipendenza.

Purtroppo molte modifiche successive hanno cancellato o deformato l’opera quattrocentesca. Quel che rimane quasi intatto sono il campanile e il portale (completati, come si è detto, dopo la morte del Beato), i muri perimetrali della chiesa e qualche piccola parte del convento. Specialmente da questi ultimi possiamo chiaramente leggere una sobria dignità che tiene conto delle esigenze della povertà monastica, sobrietà che negli interventi appena posteriori subisce una leggera espansione verso forme un pochino più civettuole, forse anche giustificate dalla popolarità che la chiesa andava prendendo per la celebrità e il culto del Beato.

L’esecuzione dei lavori non fu scevra da qualche ‘avvenimento che ebbe del prodigioso.

Un giorno che era a tavola assieme agli altri monaci, Antonio fu visto lasciar precipitosamente la mensa per accorrere alla fabbrica. In quello stesso momento uno dei tavoloni dell’impalcatura del campanile, già abbastanza alto, scivolava e un muratore precipitava nel vuoto. Ma Antonio, già pronto, lo accolse tra le sue braccia e quegli non si fece alcun male. Prodigi analoghi poi si ripeteranno per due volte dopo la morte del beato e vengono fedelmente registrati nel Libro dei Miracoli .

In mezzo ai muratori è difficile restar puliti. Antonio era solito andare vestito molto modestamente, con tonache anche piene di toppe, ma curò sempre la pulizia e l’ordine. E si cominciò, nel tempo della fabbrica, ad osservare una cosa che destò molta impressione. I frati si lavavano le vesti da sé. Ma Antonio non le lavava. Quand’erano sporche, egli le metteva a stendere. E per quanto sole ci fosse, all’improvviso il cielo si rabbuiava, grossi acquazzoni si rovesciavano giù, e poi subito un bel sole e un caldo venticello le riasciugava e le stirava.

Pie leggende? Può darsi. Però ormai da tempo nella vita d’Antonio il prodigioso s’intrecciava all’usuale. E se pensiamo all’enorme popolarità che esplose subito dopo la sua morte, essa non si giustifica se non ammettiamo durante la vita il verificarsi di fatti fuori dell’ordinario.

D’altra parte una delle calamità ricorrenti in cui la pietà popolare prese a invocare e a sperimentare la potente intercessione del beato fu proprio l’inclemenza del tempo. L’economia del Piceno, essenzialmente agricola, ha bisogno di pioggia e sereno a tempo giusto; e invece essi vengono quando gli pare. E il Beato Antonio fu costantemente invocato nei disordini meteorologici anche con processioni, tridui e altre forme pubbliche fin dai primi tempi dalla sua morte. La tradizione gli ha assegnato così il simbolo delle nubi in mano e l’appellativo di «nubigero », ossia padrone e regolatore delle nubi.