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Fisionomia Spirituale

Non possediamo alcun dipinto sufficientemente antico che ci mostri con attendibilità il ritratto fisico del Beato. Solo l’esame anatomico del suo corpo e una certa impressione che si desume dal complesso delle notizie su di lui c’inducono a pensare che egli fosse non solo abbastanza alto, ma ben formato, robusto e vigoroso, quell’insomma che si direbbe un bel pezzo d’uomo. Probabilmente abbastanza asciutto, ma non un fascio d’ossa. In una revisione del suo corpo, effettuata 335 anni dopo la sua morte, la commissione trovò « piene, sebbene magre, le muscolature delle cosce, ed in egual stato e condizione… quelle delle gambe… il polpaccio… » ecc.

Forse se ne potrebbe avere una certa idea da certi vecchi della montagna, modellati dalle fatiche e dalle intemperie, ma spiranti una luce piena di tranquillità e di fiducia. Andare oltre sarebbe solo fantasia.

Ma quello che c’interessa maggiormente è una descrizione, pur breve e sintetica, della sua spiritualità e degli elementi che la caratterizzano.

Come già si è visto, S. Nicola da Tolentino fu l’ispiratore della sua vocazione e il modello per tutta la vita. E in realtà molte analogie si riscontrano nella vita spirituale dei due santi.

Anzitutto lo stesso Sommario di beatificazione, che accoglie e sintetizza tutte le fonti che lo hanno preceduto nel tempo, mette in rilievo la piena fedeltà con cui Antonio realizzò la sua consacrazione religiosa. Consacrazione religiosa significa tutto per Iddio. Si realizza particolarmente con la povertà completa, la castità scelta per amare Dio soltanto, e l’obbedienza come sacrificio supremo dell’egocentrismo. In certa misura il Vangelo esige da ogni cristiano queste disposizioni; ma come sacrificio assoluto è solo consigliato a chi abbia avuto il dono di scoprire quei tesori del Regno che pochi riescono a comprendere. Antonio visse questa consacrazione senza appannamenti. Dio soltanto era il centro della sua polarizzazione; nessun altro interesse all’infuori di Dio e i voti erano il mezzo per operare un distacco assoluto da ciò che allontana o raffrena dal cammino verso Dio.

Nel Sommario tutto questo è affermato chiaramente. Certo a noi piacerebbe avere qualche dettaglio, qualche episodio: ma non ce ne sono pervenuti. Quello che sfida il tempo sono gli avvenimenti clamorosi, quelli che fanno impressione: le virtù nascoste, quelle di tutti i giorni, non fanno impressione. Farebbero molto più spicco i vizi e i peccati.

Semmai ciò che della vita monastica d’Antonio colpì i frati e i laici contemporanei era quell’attaccamento al convento, alla vita di comunità, e particolarmente quella prontezza a lasciare in tronco qualunque altra occupazione, sia pure strettamente apostolica, per ritrovarsi insieme agli altri monaci nella preghiera corale, nella refezione e in tutti gli altri momenti in cui i frati sogliono ritrovarsi insieme.

Una virtù caratteristica, che tutte le fonti tengono a sottolineare, fu la sua profonda umiltà. Non c’è dubbio che attorno alla sua persona si andò concentrando sempre più l’ammirazione e il plauso di tutti. Egli ebbe il dono dei miracoli, delle previsioni profetiche e delle introspezioni. Queste cose lasciano la gente a bocca aperta e Antonio era circondato d’entusiasmo e di lodi. Quasi tutti ci ammazziamo per un po’ di lode, per essere visti dagli altri. Ad Antonio questo dava noia, e sapeva sottrarvisi pur senza essere scontroso e senza esagerazioni. È questa l’umiltà più autentica, fatta d’equilibrio e di serenità. Ci viene riferito che Antonio amava fare le cose più umili nel monastero, come il lavare i piatti, spazzare, ecc. Ma questo di per sé non è umiltà; spesso anzi gli atti d’umiltà si fanno per dar soddisfazione a sé stessi. L’umiltà d’Antonio era invece nel saper stare nella propria misura senza sforzi o contorsioni ma con spontaneità, naturalezza ed equilibrio, per cui dalla sua persona nasceva un vero calore umano e una disponibilità completa verso i bisogni degli altri. Non metteva soggezione: chi mette soggezione è tanto l’orgoglio quanto l’umiltà forzata. Perciò non ci può essere vera carità se non c’è vera umiltà.

E la carità in Antonio fu tanta che addirittura modificò i piani originali della sua vita. Voleva essere un austero asceta nel chiuso del romitorio, ma l’urgenza della carità lo aprì ad un apostolato che sempre più lo impegnò senza lasciargli respiro. Era un apostolato di contatti diretti, da persona a persona. Egli lo svolgeva con una tale dolcezza che a volte poteva dar persino l’impressione di troppa larghezza o remissività.

Remissivo con gli altri, con sé stesso fu di una austerità straordinaria, e questa è una delle caratteristiche della sua spiritualità. Qui i dettagli non mancano, come elementi più facilmente atti ad impressionare.

Egli sottopose il suo corpo ad una disciplina che mirava ad un assoluto dominio dello spirito. Per tutta la vita tenne i fianchi stretti da un aspro cilicio di cuoio di cinghiale, con le setole rivolte all’interno sulla carne nuda, che pungevano come chiodi. Frequentemente si flagellava con funi nodose e persino con catene di ferro e spesso dalle sue carni martoriate sprizzava sangue, le cui macchie restarono sulle pareti e sul pavimento per lungo tempo. Non aveva letto. Dormiva su delle fascine di viti su cui stendeva una pelle conciata, e per cuscino aveva una grossa pietra. Solo negli ultimi tempi della vita i confratelli lo indussero a sostituire la pietra con un travetto di legno.

Non mangiò mai carne. Il suo cibo abituale era pane con un po’ di legumi o verdure. Beveva acqua. Ma un po’ di vino ve lo mescolava. Ma per tutta la vita tre giorni la settimana digiunava, tirando avanti solo con pane e acqua.

Uno dei sacrifici cui maggiormente sottopose il suo corpo fu la privazione del sonno. Faceva lunghe veglie in chiesa, quasi sempre fino alla mezzanotte, quando i frati scendevano in coro per la preghiera del Mattutino; ma, specie nella vecchiaia, molto spesso vi restava anche dopo e per tutta la notte, prendendo al far dell’alba un po’ di sonno con la testa appoggiata ad una panca. La preghiera, il contatto con Dio, la contemplazione delle cose superne, le estasi erano il suo pane quotidiano.

Coltivò una tenera devozione alla passione del Redentore e alla Vergine addolorata, ossia i misteri del dolore. C’è nel Santuario una Pietà in terracotta, cioè il gruppo della Madonna con il Figlio morto sulle ginocchia; opera artisticamente modesta, ma di grande valore storico. Davanti ad essa il Beato passò tante delle sue notti in preghiera; era l’altare preferito della chiesa. E non è improbabile che sia stato lui stesso a commissionarla, dato che è databile tra il XIV e il XV secolo, per quanto ci sembri più probabile che appartenesse alla chiesa anteriore del romitorio.

La devozione verso la Madre del Signore egli la coltivò in tutte le maniere e sempre, e fa persino tenerezza la notizia di un suo devoto pellegrinaggio a Loreto nel 1432 , quando già aveva la bella età di 77 anni. Naturalmente a piedi e comunque con notevole disagio. Al santuario dell’Ambro invece ci dovette andare chissà quante volte, a partire dalla fanciullezza quando era con i Benedettini. Ci sarà andato anche per commissioni o impegni; ma le cronache riferiscono che più volte vi andò in devoto pellegrinaggio quand’era religioso in Amandola.

Queste devozioni verso Gesù e la Madonna erano oggetto anche del suo apostolato. Era solito segnare e benedire quelli che andavano da lui col segno della croce e poi recitava insieme ad essi il Padre nostro e l’ Ave Maria . Non c’è dubbio che molti abbiano ricevuto grazie segnalate con queste semplici preghiere.